La prima riflessione dalla quale il contributo prende il via è dedicata alla sindrome post-embolia polmonare della quale poco si discute ma che meriterebbe invece maggiore attenzione: molti sono infatti i pazienti che manifestano dispnea, grandi difficoltà nell’esercizio fisico, e qualcuno anche depressione, panico, ansia post tromboembolismo venoso. Quanti pazienti non ritornano ad una vita normale?
Sicuramente nella loro prognosi impatta lo sviluppo di ipertensione polmonare, perché persiste l’occlusione o perché la terapia anticoagulante non è stata efficace, o ancora per la permanenza dei trombi a livello dei vasi (ancora poco nota quest’ultima dal punto di vista epidemiologico).
Noti e non positivi sono invece i dati sull’ipertensione polmonare, stimata tra il 2 e il 3% dei pazienti, ma con una sopravvivenza a 3 anni del 30%, dato questo che non può che indurci alla convinzione circa la necessità di intervenire identificando tempestivamente la patologia, molto più di quanto ad oggi già si faccia.
Grande è infatti il ritardo diagnostico con il quale questa malattia viene individuata, tanto che l’80% dei pazienti giunge a diagnosi già in classi avanzate, senza dimenticare inoltre che non più del 60% dei pazienti riceve una diagnosi di ipertensione polmonare.
Perché?
La casistica non è ampia ma il razionale per mettere in atto un vero screening esiste, così come esistono gli strumenti, anche semplici, che ci consentirebbero di agire in modo precocissimo, identificando già dalla diagnosi di EP se il paziente può andare incontro ad ipertensione polmonare ed esistono, infine, le terapie, chirurgiche e non.
Il professor Squizzato approfondisce l’argomento esplorando le metodiche per la stratificare del paziente, anche asintomatico, attraverso la valutazione dei fattori di rischio e l’utilizzo di score dedicati, quali il CTEPH prediction score e l’InShape study algorithm e conclude sottolineando la necessità di sviluppare, nei nostri centri, un protocollo, anche semplificato, per il follow-up, senza dimenticare che esistono centri specializzati di riferimento ai quali il paziente può essere indirizzato.
Cosa ci siamo persi dunque? Non la letteratura, a quanto pare, ma il paziente che, ribadisce, non deve essere “abbandonato”.